
Irak:
l’unica soluzione è la cacciata delle truppe
imperialiste Dopo
anni di guerra il popolo irakeno è l’unico a pagare
Davide
Margiotta
Secondo
il rapporto presentato del generale Petreus al Congresso la nuova
strategia statunitense in Iraq (l’operazione militare denominata
“Surge”, ovvero il piano di rinforzi che ha aumentato il numero
di soldati sul campo) starebbe dando i propri frutti. Bush in un
discorso alla nazione ha confermato che gli attacchi della guerriglia
sarebbero diminuiti e la violenza in calo (mentre continuano nel
silenzio assordante dei media borghesi i massacri degli occupanti).
Il presidente americano sposa il piano che prevede il rientro di
5.700 militari entro la fine dell'anno e di circa 30.000 uomini a
metà luglio del 2008. La strada imboccata, a suo giudizio, è
quella giusta per spezzare il circolo della violenza e il numero dei
soldati può tornare quello di gennaio. Questo ritiro
parziale serve più che altro all’amministrazione Bush per
prendere tempo e togliere argomenti a chi vuole un rientro su larga
scala.
I
18 punti del Congresso Il
giorno dopo il discorso di Bush, una relazione ufficiale della Casa
Bianca ha dichiarato che l’Iraq ha mostrato progressi su nove dei
diciotto obiettivi indicati dal Congresso per decretare il successo
nella stabilizzazione del Paese. I progressi sarebbero in particolare
relativi all’aumento degli ex ufficiali del partito Ba’ath
integrati nel nuovo esercito; su due punti chiave la relazione della
Casa Bianca manifesta totale insoddisfazione: l'approvazione di una
legge per la corretta ed equa gestione dei guadagni provenienti dalle
immense risorse petrolifere e di gas naturale del Paese e la capacità
delle truppe irachene di agire indipendentemente dalla coalizione a
guida Usa. Bush ha cercato di dimostrare il crescente successo
delle operazioni militari citando la cosiddetta riconciliazione dal
basso, cioè il fatto che le popolazioni locali starebbero
combattendo gli estremisti e riportando la pace fra i vari gruppi
etnici e religiosi del Paese al di là del governo centrale.
Per suffragare questa tesi, il rapporto cita le tribù sunnite
della provincia di al Anbar che si sono ribellate ai jihadisti di al
Qaeda, ricevendo poi il sostegno di Baghdad. Peccato che proprio in
quelle ore il leader tribale locale, Abu Risha, che aveva riunito
dozzine di leader tribali sunniti per collaborare con gli occupanti e
il governo fantoccio, venisse assassinato…
Il
ruolo di al-Sadr L’uscita
dei seguaci di al Sadr dal "blocco sciita" al governo
(l’Aiu, Alleanza Irachena Unita), è certamente un fatto di
enorme importanza. Secondo il leader sciita, al-Maliki ha smesso
di consultare i sadristi per gli affari di Stato e ha cominciato ad
arrestare membri del suo Esercito del Mahdi. In effetti, al-Maliki,
messo sotto pressione da Washington, ha cominciato un giro di vite
sulle stesse persone che hanno protetto il suo regime. L’uscita di
Muqtada al-Sadr dal governo è la risposta alla nuova alleanza
che comprende al-Maliki, al-Hakim e due leader curdi: Masoud Barzani,
presidente del Governo regionale del Kurdistan iracheno, e Jalal
Talabani, presidente della Repubblica. Secondo Muqtada lo scopo di
questa nuova alleanza è quello di far passare il controllo del
giacimento di Kirkuk al Kurdistan, in cambio del supporto dei Curdi
al premier. Nel tempo al-Sadr ha creato un’ampia rete di
organizzazioni caritatevoli che gli fanno capo, offre servizi come
l'ospedale gratuito e la protezione; la povera gente è
diventata sempre più dipendente da lui per la propria
sopravvivenza. L'Esercito del Mahdi è estremamente popolare
presso i giovani sciiti, cui offre lavoro e protezione. Nel
frattempo, Muqtada ha coltivato alleanze all'interno dei circoli
politici. Al-Hakim, sostenuto dall’Aiu, appoggia l'idea di
creare un distretto autonomo sciita nel sud del Paese, mentre
Muqtada, che ha l’obiettivo di porsi alla guida del Paese, è
contrario ad un'ulteriore federalizzazione dell'Iraq, incontrando la
simpatia di vasti settori di popolazione, tuttora contrari alla
divisione dell'Iraq secondo linee confessionali, nonostante il loro
nazionalismo sciita. A questo punto il governo fantoccio appare
appeso a un filo. Quelle che di certo non sono migliorate in Iraq
sono le condizioni di vita degli iracheni, gli unici che pagano
realmente sulla loro pelle la voglia, tutta occidentale, di portar
democrazia in giro per il mondo (generalmente vicino pozzi di
petrolio). Il Direttore dei programmi di emergenza per l'Unicef,
Dan Toole, ha presentato la situazione irachena in termini molto
chiari: “La situazione in Iraq si sta deteriorando molto
rapidamente - in maniera spaventosa... Spesso dimentichiamo che
milioni di iracheni sopravvivono tagliati fuori da qualsiasi tipo di
servizi o assistenza. La loro condizione peggiora di giorno in
giorno”. Secondo Toole, “la situazione umanitaria in Iraq è
peggiorata soprattutto per i bambini... Nell'ultimo anno le
condizioni di vita si sono aggravate vertiginosamente e si contano
oltre 2 milioni di persone che hanno dovuto abbandonare le proprie
case, mentre altri 2 milioni, di cui la metà bambini, stanno
ancora cercando rifugio nei Paesi vicini”. In Iraq oggi spesso
è impossibile andare a scuola, l'accesso all'acqua potabile
continua a diminuire determinando l'aumento di condizioni igieniche e
sanitarie sempre più precarie. Il rischio di epidemie aumenta
di giorno in giorno, mentre i tassi di vaccinazione sono in calo.
Quale
prospettiva per l’Iraq? La
sconfitta degli occupanti resta l’unico scenario auspicabile. La
situazione di guerra permanente opprime non solo i popoli sotto
dominazione imperialista (Iraq, Palestina, Libano, Afghanistan), ma
anche i lavoratori dei Paesi imperialisti, costretti a sopportare le
spese di guerra e il clima da caccia alle streghe dovuto alla “lotta
al terrorismo”, che porta a bollare come terrorista qualsiasi
movimento progressista. L’imperialismo è il nemico
principale e una sua sconfitta, che minerebbe la già scarsa
fiducia che il proletariato ripone nelle classi dominanti, sarebbe
una vittoria per i lavoratori di ogni Paese. Per questo siamo
solidali con le resistenze dei Paesi occupati, indipendentemente
dalle loro direzioni reazionarie attuali. Il compito dei comunisti
in questi Paesi è quello di combattere gli occupanti con ogni
mezzo, al fianco degli altri gruppi della resistenza, mantenendo la
propria autonomia politica. La questione irachena non è
separabile dalla questione mediorientale: il controllo di quest’area
strategica fondamentale è il centro dell’azione imperialista
mondiale. Per questo non si può separare la lotta contro
l’occupazione dell’Iraq da quella contro l’occupazione degli
altri Paesi, a cominciare dall'Afghanistan o dal Libano, dove
l’Italia gioca un ruolo di primo piano. Ogni distinzione in
questo campo, al di là delle intenzioni, è un cedimento
allo sciovinismo e alle mire espansioniste della propria borghesia,
che si ritorcono contro i lavoratori italiani.
(fonte:
alternativacomunista.org)
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